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    “Femme-Terre. Il ciclo della vita”

    Paura di non saper fare

    Questo il titolo della proposta di laboratori espressivi con tecniche di arteterapia che si è tenuto nel 2018 al Museo.


    Da venti anni la Galleria del Premio Suzzara sperimenta modalità di approccio all’arte contemporanea idonee al coinvolgimento di un pubblico variopinto: da studenti di ogni ordine e grado scolastico e, negli ultimi dieci anni, a utenti dei servizi psichiatrici, operatori, educatori, profughi e chiunque, spinto da curiosità,  intenda mettersi in gioco.
    Due opere in particolare hanno ispirato il percorso: Femme-Terre di Ousmane Ndyaie Dago e Pranzo di nozze di Odinea Pamici.
    La prima è una fotografia dove l’identificazione tra donna e terra, la madre-terra, viene impersonata da modelle senegalesi la cui pelle è ricoperta con terra e fango: si presentano corpi sensuali con la testa avvolta in un panno che paiono sculture.
    L’opera fu premiata al Premio Suzzara nel 2002.
    La seconda è un’installazione spettacolare che consiste in un bianco vestito da sposa il cui bordo si spande a terra come tovaglia imbandita con piatti e bicchieri di cera per un banchetto di nozze.
    La celebrazione di un consumo attraverso l’assenza di un corpo.
    L’opera fu premiata al Premio Suzzara del 2003.
    Da qui è partito il progetto elaborato da Chiara Beschin, arteterapeuta, con la collaborazione di Luigi Curcio e lo staff del Museo , per dare voce ad una storia di lotta femminile, di sapere  artigianale di vita e di cura. Dialoghi grafici alla ricerca del gesto autentico, la costruzione di corpi fuori dagli stereotipi, mani che offrono e mani che ricevono, mani che intrecciano fili, storie e destini, tessuti che si indossano come storie.
    Si utilizzano scotch colorati, rotoli di carta, giornali, argilla, tessuti, corde. Si disegna, si dipinge, si modella, si tesse, si creano sagome, forme e si operano trasformazioni.
    Dalle opere del Museo vicine al tema della donna escono storie che si intrecciano con le storie individuali dei
    partecipanti al laboratorio. Incontri e scambi che provocano reazioni, collaborazioni, introspezioni, relazioni con l’altro e tante scoperte.
    Il miscuglio etnico, di culture, di storie, di età diverse crea sorprese. Le relazioni tematizzano senza retorica ma con un’esperienza vissuta il concetto di libertà.
    Lo scopo dell’arteterapia si definisce proprio in finalità volte a dar corpo e forma ad un vissuto, aprire la mente per attingere a nuove interpretazioni della propria storia, della propria immagine di sé in un percorso continuo di trasformazione.

    Chiara Beschin cita le parole di Kent Nerbum:
    “ Le nostre antenate ci hanno insegnato che la terra parla sempre a noi, ma dobbiamo tacere per sentirla.  Ci sono molte voci oltre la nostra. Molte voci.”

    Questo appello all’ascolto va esteso ai frequentatori di qualsiasi museo del mondo. Ogni museo, in qualche modo, attraverso i suoi oggetti, ci affida storie di “antenati” di una terra che parla sempre a noi.
    Intendiamo rifarci dunque ad un’idea di museo come spazio critico, mobile, laboratoriale, esperibile da tutti attraverso una dimensione estetica che coinvolge i corpi e narrativa che espone cioè gli oggetti collezionati come storie, storie di vita.
    E’ chiaro così che non ci sono soggetti da riabilitare o normalizzare ma individui la cui specifica diversità può trasformarsi in una ricchezza che si contrappone a quella paura di non saper fare di  cui parlava Franco Basaglia a proposito di Marco Cavallo, opera collettiva realizzata nel 1973 presso il manicomio di Trieste,
    simbolo di libertà.



    di Marco Panizza